Avevo circa cinque anni, quando chiesi a mia nonna per quale motivo si definisse antifascista. Lei mi prese sulle ginocchia e mi raccontò la sua storia. Quinta di cinque figli, genitori contadini, lavoravano la terra del padrone dall’alba al tramonto, non andò mai a scuola perché a casa c’erano solo un paio di scarpe e lei si vergognava di andare a scuola scalza.Non imparò mai a leggere, ma imparò ad obbedire e lavorare senza mai stancarsi. Viveva in un paese nel cuore dell’Umbria. Un paese ricco di storia, ma di poche anime che si conoscevano tutte. Aveva dodici anni quando Mussolini marciò su Roma, e nella sua vita di bambina le cose non cambiarono molto. Suo padre però faceva discorsi strani. Parlava di regime, dittatura e di contro di libertà di pensiero e di parola. Quando uccisero Matteotti lei non capì perché il padre e i suoi fratelli ne fossero tanto sconvolti. Continuavano a lavorare la terra, il tempo passava, le stagioni pure. Il caldo e il freddo si alternavano e la terra inesorabile chiedeva loro di impegnare le loro braccia. Il padrone era sempre lì sul suo cavallo a controllare i campi e a pretendere il raccolto e a volte urlava contro suo padre e i suoi fratelli, accusandoli di non spezzarsi abbastanza le schiene. «Un giorno - mi disse - diventai antifascista anch’io». Un giorno suo fratello camminava nel centro del paese. Aveva diciotto anni, era bello, almeno così diceva mia nonna. Incontrò dei vecchi conoscenti, un gruppo di paesani che indossavano le camicie nere e i baschi col pennacchio. Non erano mai stati amici ma neanche particolarmente nemici. Ma loro sapevano le idee socialiste che giravano nella casa paterna di mia nonna. Questo bastò. Gli diedero una coltellata alla pancia. Ansimante cercò di arrivare a casa tenendo le viscere premute sulla pancia con le mani, mentre loro lo seguivano deridendolo. Non vi arrivò mai. Morì così, a diciotto anni, ucciso da un gruppo di fascisti, quelli con cui prima dell’avvento della dittatura spesso si era incontrato nei giochi dei bambini. Gli altri fratelli di mia nonna giurarono vendetta, ma le donne della famiglia li fermarono credendo che alla violenza non dovesse aggiungersi altra violenza. Da allora mia nonna capì l’orrore del fascismo, l’aberrazione dell’uomo di fronte alla dittatura, la precarietà della vita e l’importanza delle idee.Non so perché il Sindaco Alemanno si ostini a difendere l’indifendibile. Mia nonna è morta oramai da anni, ma io ricordo e non dimenticherò che il fascismo, tutto il fascismo sia stato e resterà il male assoluto.
Valentina Rinaldi
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